Io, Iodio, povero incompreso: come e perché devi comprendere lo Iodio
Negli ultimi dieci anni mi era successo spesso di sentir parlare di lui come se si stesse parlando del diavolo. E la cosa capitava sia in ambito professionale sia in contesti meno “ufficiali”. Fu così che un giorno di qualche tempo fa decisi di recuperarlo dagli inferi per vederci chiaro. Non avrei mai immaginato che da una ricerca sullo iodio nata quasi per gioco potessero venir fuori informazioni tanto preziose quanto ignorate dalla comunità scientifica.
Sto parlando del più temuto e aggiungerei incompreso micronutriente, un elemento essenziale del quale forse non si è ancora capito nulla: vi presento lo iodio. Conosciamolo meglio.
Presentazioni: io, iodio
Lo iodio è un elemento essenziale, nel senso che ogni singola cellula dell’organismo ha bisogno della sua presenza per compiere importanti funzioni vitali. Purtroppo, però, in tanti non raggiungono livelli adeguati, e non solo nelle aree della Terra in cui la carenza è legata alla scarsità di terreni e di fonti alimentari ricche di questo elemento. La perdita di iodio è infatti divenuta pandemica a causa dell’aumentato introito di tossine ambientali, bromuri, fluoruri, cloruri, pesticidi e additivi alimentari. Tanto per fare un esempio: prodotti di uso comune come il pane e la pasta sono semplici veicoli di bromuro, e in alcuni Paesi l’acqua viene ancora addizionata di fluoro.
Come se non bastasse, la carenza è altamente sottostimata in tutto il mondo, così come il fabbisogno stabilito dalle linee guida, e la quantità di iodio che si assume con la dieta non basta per raggiungere livelli adeguati di iodiemia. Un quadro perfetto insomma.
L’importanza per l’organismo e il reale fabbisogno
Lo iodio, si sa, è uno degli elementi coinvolti nella sintesi degli ormoni tiroidei, che ne contengono rispettivamente tre e quattro atomi al loro interno. Il binomio iodio-tiroide è dunque imprescindibile, considerando anche che questa ghiandola ne detiene fino a 50 mg. Ma attenzione, perché non è la sola a richiedere la presenza costante di iodio, e intendo in quantità sufficienti: anche ghiandole mammarie, prostata, ovaie, fegato, milza, ghiandole surrenali, asse ipotalamo-ipofisario, tutto il sistema endocrino e altri tessuti ne hanno strettamente bisogno. Ancora, precise quantità di iodio sono immagazzinate a livello di ghiandole salivari, liquido cerebrospinale, cervello (substantia nigra), mucosa gastrica, plesso coroide, corpo ciliare dell'occhio.
Detto questo, dovrebbe esser chiaro che tutte le nostre ghiandole dipendono da adeguati livelli di iodio per funzionare in modo ottimale, mentre lo stato di carenza può causare uno squilibrio non solo tiroideo ma dell’intero sistema ormonale. Non sarà un caso, dunque, se lo iodio viene definito anche “minerale endocrino”.
Qual è, quindi, il fabbisogno di iodio che può prevenire lo stato di carenza?
Secondo la Medicina convenzionale il fabbisogno per l’adulto è pari a 150 mcg/die, mentre il limite massimo di assunzione ammonta a 600 mcg/die. In Medicina Funzionale si parla di 800 mcg-1000 mcg/giorno. Tuttavia, c’è ragione di pensare che questi valori siano decisamente bassi. A supporto di questa ipotesi, sono stati decisivi gli studi del dottor Abraham, uno dei più importanti Ricercatori al mondo sullo iodio, e del suo allievo dottor Brownstein, secondo i quali il fabbisogno giornaliero di iodio sarebbe molto più alto, dell’ordine di milligrammi.
Anch’io ho strabuzzato gli occhi vedendo questo dato per la prima volta. Ma poi ho continuato a leggere e approfondire, e ho capito che tale fabbisogno dipende dalla capacità dell’organismo di trattenere lo iodio nei tessuti che più lo utilizzano, tiroide in testa, seguita da ghiandole mammarie, ovaie, prostata, etc. Tale capacità viene espressa come “livello di saturazione” dello iodio, e può essere adeguatamente valutata mediante il test di escrezione di iodio nelle urine (ioduria nelle 24h).
Sempre secondo Abraham e Brownstein, il fabbisogno per mantenere il giusto livello di saturazione ammonta dunque a 12-15 mg al giorno (di cui circa 6 mg/giorno destinati alla tiroide, 5 mg a seno e ovaie, il resto agli altri tessuti), quantità impossibile da raggiungere e mantenere con la quantità consigliata dalle linee guida.
Perché allora tutti hanno paura di lui?
Questa è una bella domanda, ma come in altri casi (vedi colesterolo), una volta che una fobia mette radici, ahimé diventa difficile sradicarla.
In particolare, Abraham definì “iodo-fobia medica” la paura ingiustificata di utilizzare lo iodio inorganico (iodio/ioduro non radioattivo), frutto di una non-conoscenza della sua biochimica e fisiologia. Ancora oggi, del resto, si pensa che un eccesso di iodio possa causare l’ipotiroidismo, e questa assunzione è dovuta al fatto che i livelli di TSH aumentano quando si inizia una terapia a base di iodio.
Come ci insegnano i Ricercatori sopra citati, però, quanto detto è solo una conseguenza temporanea e del tutto priva di rischi, poiché:
L’aumento del TSH è assolutamente fisiologico, e rappresenta l’aumento della sintesi di ormoni tiroidei e, ancor prima, l’aumento dei livelli di NIS (il co-trasportatore sodio-iodio necessario a far entrare gli atomi di iodio nelle cellule). In altre parole, quando si è carenti di iodio, il rate di sintesi dei NIS è molto basso, ma quando si inizia ad assumere iodio e dunque i livelli aumentano, aumenta anche la necessità di trasporto ai tessuti, e dunque la sintesi di NIS!
L’aumento del TSH non si accompagna ad un’alterazione dei livelli di T3 e T4, e già questo dato dovrebbe bastare per tranquillizzare. Si tratta infatti di un innalzamento transitorio, che può permanere da poche settimane fino a un massimo di sei mesi prima di tornare alla normalità. Tale durata dipende da quanto tempo è necessario perché la ghiandola tiroidea e l’intero organismo raggiungano il giusto livello di saturazione di iodio.
Al contrario, si dovrebbe porre l’attenzione sulla somministrazione di ormoni tiroidei in presenza di carenza di iodio. Questo approccio può rivelarsi non solo inutile ma anche dannoso per la tiroide stessa.
Il pensiero spontaneo che sorge dopo questi ragionamenti è che sarebbe sempre opportuno fare una valutazione dello stato di iodio in chi sviluppa un qualsiasi disturbo tiroideo, prima di ricorrere direttamente alla terapia ormonale.
Un altro malinteso riguarda la controindicazione dell’utilizzo dello iodio nelle malattie tiroidee autoimmuni (morbo di Graves e tiroidite di Hashimoto). In realtà, in chi è carente di iodio il rischio di sviluppare gli auto-anticorpi tiroidei aumenta!
Se poi consideriamo che tali malattie sono strettamente legate alla presenza di uno stato infiammatorio, è opportuno includere nel trattamento terapeutico l’adozione di una dieta “anti-infiammatoria” (senza glutine, basata su cibi naturali, con quantità di carboidrati da basse a moderate, sale non raffinato, etc.).
L’unica condizione nella quale si deve evitare l’assunzione di iodio è la presenza di un nodulo caldo nella tiroide, cioè un nodulo attivo e indipendente dalla ghiandola stessa. Solo in questi casi, somministrare iodio potrebbe predisporre all’ipertiroidismo, perché il nodulo è in grado di assorbire iodio e produrre ormoni tiroidei in modo incontrollato. È quindi necessario non assumere iodio (inclusi gli alimenti che lo contengono) finché il nodulo non viene rimosso.
Un altro possibile effetto che può verificarsi nei primi giorni di assunzione di iodio (di solito a dosaggi maggiori di 30 mg/die) è la riduzione della ferritinemia, ma anche in questo caso si tratta di un fenomeno del tutto transitorio, dovuto all’aumento del metabolismo basale e dunque a una maggiore richiesta di ferro da parte delle cellule.
Come dosare il livello di iodio nell’organismo
È qui che viene il bello, come spesso accade quando si tratta dei test diagnostici potenzialmente più utili. Benché sia possibile dosare lo iodio nel sangue e nella saliva, il metodo più affidabile è la determinazione nelle urine, e ancor meglio il test descritto di seguito.
Il protocollo funzionale ideato dal dottor Abraham si chiama “Test da carico di iodio” e si basa sul fatto che lo iodio presente nell’intero organismo possa essere dedotto misurandone la quantità escreta nelle urine nel corso di 24 ore, dopo l’assunzione di 50 mg di iodio. Questo perché in un individuo non carente il 95% viene escreto con le urine, mentre l’organismo di un individuo carente ne tratterrà la quantità che gli occorre.
Volendo scendere ancora più nel dettaglio, ricordiamo che lo iodio si lega sempre a dei recettori presenti in tutto il corpo. Se vi è dunque una carenza interna, il legame ai recettori post-carico sarà maggiore, e da qui una minore escrezione nelle urine.
La procedura prevede l’assunzione di 50 mg di iodio seguita dalla raccolta delle urine nelle 24 ore. Naturalmente dovrà poi essere un laboratorio analisi a fornire il risultato. Incredibile ma vero, io ho trovato un solo centro che esegue questo test, se ne trovate altri vi chiedo quindi di segnalarlo nei commenti.
Come assumere lo iodio
(e quanto iodio assumere)
È senz’altro possibile assumere un po’ di iodio attraverso alcuni alimenti e dal sale iodato.
Peccato che:
Gli alimenti più ricchi in assoluto sono le alghe, e sfido chiunque a riuscire a mangiarne in quantità adeguata e in modo costante, senza contare il rischio di contaminazione della maggior parte delle stesse.
La biodisponibilità dello iodio contenuto nel sale iodato è meno del 10%, e l’effettivo assorbimento è ancora inferiore, se consideriamo che il cloruro (NaCl) compete con lo ioduro per gli stessi recettori.
Sempre nel sale iodato, la quantità di iodio aggiunta in fase di produzione non rimane la stessa a vita, poiché lo iodio evapora in tempi brevi (in gergo tecnico, ciò che avviene a contatto con l’aria è la reazione di sublimazione). E sappiamo tutti quanto dura una confezione di sale in dispensa.
Molti alimenti di uso comune sono ricchi di bromuri, cloruri e altre sostanze che possono ridurre l’assorbimento e/o la biodisponibilità dello iodio nell’organismo.
In una percentuale di casi decisamente superiore a quella che possiamo immaginare, la supplementazione terapeutica dovrebbe quindi diventare la prima scelta. Il dosaggio di iodio va stabilito in base allo stato di carenza iniziale e può variare da 12 a 50 mg/die, fino a 100 mg/die nei casi più gravi. Lo stesso deve poi essere aggiustato in modo graduale e sintomo-dipendente, oltre che monitorando i livelli di iodio e degli ormoni tiroidei.
Facciamo però un passo indietro: la forma di assunzione è discriminante ai fini di garantirne il corretto assorbimento, perché lo iodio di per sé non è molto solubile in acqua. Secondo i già citati Abraham e Brownstein, inoltre, lo iodio assunto con il sale iodato è del tutto inutile, e l’unica formulazione corretta ed effettivamente bio-disponibile si basa sulla combinazione di iodio e ioduro di potassio in soluzione acquosa o in pastiglie. L’ideatore di questa soluzione fu il fisico francese Jean Lugol, che nel lontano 1829 scoprì come l’aggiunta di ioduro di potassio all’acqua aumentasse la solubilità dello iodio nella stessa.
È allora che nacque la “Soluzione di Lugol”, già nota in ginecologia per il suo utilizzo nel test di Schiller e ancora oggi prima scelta nelle terapie a base di iodio. Disponibile in diverse formulazioni (2%, 5%, 7% etc.), la più diffusa è la Lugol’s 5%, che con due gocce (0,1 ml) fornisce 5 mg di iodio e 7,5 mg di ioduro, per un totale di 12,5 mg di iodio, quantità ritenuta necessaria e sufficiente a garantire la richiesta quotidiana dell’organismo. Oggi esiste anche una formulazione in compresse equivalente alla soluzione di Lugol (1 compressa = 2 gocce di Lugol’s).
In entrambi i casi, il dosaggio iniziale dipende da quanto è severa la carenza (o, in termine tecnico, da quanto è basso il grado di saturazione dello iodio).
Non è, però, solo un discorso di solubilità: senza voler fare una lezione combinata di chimica e fisiologia, voglio precisare che ciascun tessuto e organo del nostro organismo risponde e utilizza in modo selettivo le diverse forme di iodio. Ad esempio, la tiroide usa principalmente ioduro, il tessuto mammario iodio. Altri organi come reni, milza, fegato, sangue, ghiandole salivari e intestino possono assimilare entrambe le forme. Va da sé la maggiore utilità terapeutica dell’assunzione di iodio e ioduro combinati piuttosto che di una sola delle due forme.
Un ultimo aspetto da tenere presente riguarda la possibilità, molto più remota rispetto alla “semplice” carenza di iodio, di un difetto nell’organificazione e/o nell’ossidazione dello iodio, reazione intra-cellulare che avviene dopo il trasporto e l’assorbimento dentro ciascuna cellula. Questo difetto spesso dipende dalla carenza di vitamine B2 e/o B3, necessarie per stimolare il pathway del NADPH mediante il quale si produce la quantità di H2O2 necessaria per l’ossidazione dello iodio.
Abraham e Brownstein consigliano in questi casi di supplementare 100 mg di vitamina B2 e 500 mg di vitamina B3 da una a due volte al giorno, soprattutto quando si inizia la terapia a base di iodio, ed eventualmente di ripetere questa integrazione in modo ciclico.
Non solo tiroide
Voglio concludere questo articolo accennando ad altri due importanti setting nei quali la supplementazione a base di iodio potrebbe giocare un ruolo determinante.
Il primo è quello della disintossicazione dai metalli pesanti tossici, cioè mercurio, piombo, alluminio, arsenico, nichel e cadmio. Queste sostanze possono entrare nel nostro organismo non solo attraverso l’aria che respiriamo ma anche veicolati da alimenti e bevande. Se i livelli endogeni superano certe soglie di “sicurezza” si possono manifestare allergie, intossicazioni o intolleranze, ma soprattutto la presenza di questi metalli può interferire con l’espressione genica e causare danni ben più profondi. Si tratta quindi di un rischio che è meglio non correre.
Qualora si dovesse scoprire che il livello ematico di uno o più metalli tossici è troppo alto, è il caso di correre ai ripari. Ed ecco che oltre alle note zeolite, clorella, coriandolo e altre sostanze o terapie chelanti, può venirci in aiuto proprio lo iodio. La sua assunzione in quantità adeguate aumenta infatti l’escrezione urinaria di bromuri, fluoruri, cloruri ma anche di piombo, mercurio, arsenico e altri metalli tossici. Ricordo che i primi tre sono alogenuri tossici che competono l’un l’altro e con altri micronutrienti, riducendone assorbimento e sintesi endogena.
La seconda condizione da citare è la mastopatia fibrocistica. Già decenni fa era stato osservato nei ratti che la carenza di iodio alterava la struttura e la funzione del tessuto mammario, e che la sola assunzione di iodio - ma non di ioduro - era in grado di far regredire queste alterazioni. Come abbiamo visto in precedenza, il tessuto mammario richiede un’elevata quantità di iodio (4-5 mg) per il suo corretto funzionamento, e la formazione di microcisti potrebbe dipendere proprio da una carenza dello stesso. Anche in questi casi, sarebbe dunque opportuno testare i livelli di iodio e prendere in considerazione la sua supplementazione terapeutica, tenendo naturalmente conto di altri co-fattori come la possibile carenza di progesterone e/o l’eccesso di estrogeni (in particolare estrone ed estradiolo).
Iodio: la reputazione che merita
Lo iodio, come qualsiasi nutriente o sostanza, dovrebbe essere guardato senza paure o pregiudizi. La prima regola, come sempre, è quella di affidarsi a un professionista che sappia come utilizzarlo.
Ricapitolando quanto detto in questo articolo, ai fini di un uso corretto ed appropriato dello iodio, è fondamentale:
Tentare di avere un dato di partenza, impresa ardua ma non impossibile!
Iniziare l’assunzione di iodio in modo graduale e sotto il controllo di un professionista, e apportare altrettanto gradualmente le modifiche al dosaggio terapeutico;
Aver cura di utilizzare un integratore di buona qualità, che contenga iodio e ioduro combinati, come spiegato nel paragrafo apposito;
Monitorare i sintomi e i segni percepiti dall’organismo (livelli di energia fisica e mentale, efficienza del metabolismo, qualità del sonno, etc.).
La supplementazione a base di iodio/ioduro combinati può davvero risultare decisiva in presenza di disfunzionalità o malattie della tiroide, permettendo di ridurre o perfezionare il dosaggio degli ormoni tiroidei e di riconquistare definitivamente lo stato di eutiroidismo.